Dal progetto di Cesare Lombroso

Antonio Marro, Tabelle alimentari tratte dagli Annali di Freniatria e scienze affini (1888)

Vitto

“Nel nostro Manicomio il vitto ricevette nel corso di questo secolo già ripetute modificazioni e ciò è naturale, non potendo a verun alienista sfuggire l'importanza massima di quello nel trattamento curativo dei mentecatti, per molti dei quali un vitto appropriato costituisce quasi l'unico mezzo di cura. Il nutrimento giornaliero viene ripartito in tre pasti: colazione, pranzo e cena. Le ore destinate ai pasti sono:

  • Per la colazione quella che immediatamente sussegue la visita medica del mattino, epperciò tra le 7 e le 8.
  • Pel pranzo la distribuzione comincia alle ore 11 e termina alle 12.
  • La cena comincia alle 6 di sera.

I cibi vengono preparati in una sola cucina per gli uomini e per le donne, sia nello stabilimento di Torino che in quello di Collegno. Un gran fornello in ferro, alimentato in massima parte a carbone di coke, si presta a tale ufficio. Una caldaia papiniana permette di estrarre dalle ossa i materiali nutritizi, che vengono per tal modo utilizzati nella preparazione del brodo. Appositi elevatori per la sezione maschile e femminile permettono il rapido trasporto delle vivande ai refettori dei piani superiori.”

Antonio Marro, Il Manicomio di Torino, Annali di Freniatria e scienze affini (1888)

Refettorio dell’Ospedale Psichiatrico di S. Salvi a Firenze, © Spazi della follia

Posate e stoviglie

“Nelle sale da pranzo i tavoli sono in legno di castagno della grossezza di 4 cm, con piedi di ferro fissati al pavimento. Altrove abbiamo dei tavoli con lastre di marmo, simpatici nel loro candore, ma non pratici nei luoghi dove si adopera la ceramica e il vetro; anche senza volerlo i malati non sanno giustamente misurare lo sforzo e rompono molti bicchieri e bottiglie, battendo contro la lastra. I malati non bevono ad un bicchiere comune a tutti ma bensì ad una fontanella a zampillo alto 20 cm. I pasti e le bevande vengono serviti in scodelle e bicchieri di alluminio. Le posate, nel padiglione degli agitati, consistono nel solo cucchiaio: per loro non ci sono né forchette né tantomeno coltelli.”

Luigi Scabia, Il Frenocomio di S. Girolamo in Volterra (1910)

Architetti Monti e Savoldi, Progetto di serramenti e della chiave passepartout, Manicomio di Voghera (1874), © Spazi della follia

Chiave passepartout

“Occorrono nei manicomi alcuni accessorii di una importanza, raramente richiesta da altri stabilimenti, e che danno il carattere speciale a questi luoghi di ricovero. Il più piccolo di questi, e forse il più essenziale è la chiave a passepartouts d’identico modello per tutte le porte dei locali che hanno attinenza agli alienati; l’ingegno di questa chiave è semplicissimo; non è altro che cilindrica all’esterno con una incavatura prismatica triangolare nell’interno, nella quale viene ad inserirsi il corrispondente mastio della serratura -; della medesima saranno in possesso le sole persone che sono in diretto rapporto di servizio con gli alienati. Con questa serratura devono chiudersi tutte le porte dei locali attinenti agli alienati e colla medesima devono potersi fissare le finestre, le ferriate mobili, il coperchio dei bagni e regolare altresì le valvole d’afflusso d’acqua nelle vasche, le manette e gli altri ordigni di contenzione.”

Cesare Lombroso, Progetto di Manicomio per 350 alienati (1872)

B. P. Grimaud, Carte da gioco (XIX secolo)

Carte da gioco

“Concedo ai malati molta libertà: ne sortono per turno ogni giorno; alcuni vanno soli né mai ebbi a lamentare il più piccolo inconveniente. Alcuni applicati ai mestieri, alla stregua degli operai, sortono alla festa. Nelle buone stagioni fanno in massa delle passeggiate a distanza, portano le vivande con loro e ritornano allegramente alla sera. Ad alcuni, nei periodi intervallari o di quiescenza, se richiesti dalla famiglia, concedo il ritorno fra i parenti per qualche giorno. Non possediamo ancora una biblioteca per malati; provvedo loro qualche libro. Noto però che la grande maggioranza è data da contadini che preferiscono, dopo i pasti, di divertirsi giocando alle carte perché non sanno leggere. Seguo la tradizione della danza che mette il malato di buon umore, che ha la potenza di scuotere anche i melanconici. Nella stagione di carnevale i ricoverati fanno un po’ di teatro e questo porta la nota gaia fra loro.”

Luigi Scabia, Il Frenocomio di S. Girolamo in Volterra (1910)

Progetto di stufa a vapore (XIX secolo)

Stufa a vapore

“Pei locali di grande dimensione come i dormitori maggiori, laboratori, refettori il riscaldamento comune non sarebbe sufficiente. Per questi conviene applicarci la stufa a vapore, che si cercherà di collocare possibilmente nel mezzo del locale stesso. Le stufe a vapore più semplici, e che sono pure le migliori, si compongono di un involucro esterno cilindrico, di ghisa o di lamiera entro il quale si riscalda l’aria, derivata per mezzo di opportuni canali dall’esterno, a contatto di un tubo interno contenente il vapore, dotato di grande lunghezza per presentare una sufficiente superficie di riscaldamento e foggiato ad elica cilindrica onde occupare il minor spazio possibile. Ciascuna di queste stufe sarà munita d’un tubo soffiatore col quale si possa concedere od intercettare il passaggio del vapore entro la stufa, a norma del bisogno di riscaldamento. E’ utile finalmente disporre all’interno di questa stufa metallica che può raggiungere l’altezza da 1 a 2 metri, e ad opportuna distanza dalla medesima un parapetto a bastoncini di ferro che impedisca agli alienati di avvicinarsi alla stufa con pericolo di riportarne scottature, ed in pari tempo permetta a maggior numero dei medesimi di godere del calore irradiato dalla stufa. Finalmente questo apparecchio di riscaldamento sarà disposto per modo che si possa togliere agevolmente dai singoli locali quando all’aprirsi della stagione mite cessi dal funzionare non restando allora che di inutile ingombro.”

Cesare Lombroso, Progetto di Manicomio per 350 alienati (1872)

Ambroise Tardieu, Incisioni per “Des maladies mentales” di Etienne Esquirol (1838)

Vestiario

Nel XIX secolo il decoro o la trascuratezza di un abito veniva considerato un palese indizio dello stato mentale di una persona: un abbigliamento opportuno rispecchiava una condotta corretta, mentre vestiti rotti o sporchi erano segno dell’incapacità di un individuo di prendersi cura di sé. Ancor più scioccante era ovviamente la mancanza di abiti: la nudità, anche parziale, era motivo di arresto e sovente di internamento in manicomio.
Il processo di ammissione in manicomio prevedeva che il paziente si spogliasse completamente per un esame fisiologico completo; dopodiché veniva lavato e vestito con una divisa che avrebbe indossato per tutta la permanenza nell’istituto. Tale divisa costituiva quindi un elemento fondamentale del percorso di un individuo all’interno dell’istituzione: mentre i vestiti personali venivano lasciati nella fagotteria, l’internato assumeva una nuova identità – quella di paziente – segnalata da capi d’abbigliamento standard. Tali procedure servivano a depersonalizzare ed addirittura stigmatizzare i pazienti, separandoli effettivamente dal mondo esterno. Il sequestro dei beni personali, compresi gli abiti, rappresentava per l’internato l’atto di separazione con il proprio sé. Allo stesso modo l’uso di giacche e corsetti per la repressione dei malati di mente costituivano un esempio di come gli indumenti fossero utilizzati per controllare – almeno fisicamente – individui recalcitranti.

Nicole Baur, Joseph Melling, Dressing and Addressing the Mental Patient (2014)

Ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico di S. Artemio (Treviso) intenti in lavori agricoli

Utensili da lavoro

“Oggi è assolutamente ozioso non solo discutere, ma parlare della benefica influenza come mezzo di cura e di guarigione, del lavoro campestre. Il lavoro alla luce, al sole, all’aria, la vita in mezzo al verde della campagna in vista ad un paesaggio grandioso, coll’apparenza della completa libertà, senza l’oppressione di mura che costringono alla constatazione continua dello stato di malattia e di sequestrazione del malato; l’ordinato e regolare esercizio del corpo, la moderata fatica apportano un salutare risveglio di tutti i bisogni della nutrizione dell’organismo: l’appetito eccitato, la digestione più facile, il sonno riparatore sono tutti effetti incontrastati della azione del lavoro dei campi. Né meno efficace si fa sentire la sua influenza sullo spirito: dà all’alienato, che abbia superato la crisi di una lunga depressione sentimentale, il senso d’una personalità ancora utile a sé e agli altri; toglie dal torpore e dalla inazione il melanconico, l’ipocondriaco; disciplina la fantasia del delirante; eccita coll’emulazione dell’opera, utile alla comunità, i sentimenti altruistici e ritempra il carattere; concede a chi farà presto ritorno alle proprie occupazioni il ricordo quasi gradito di ore serene passate, pure nella casa del dolore, ed offre all’ammalato cronico l’opportunità di attingerci una sorgente di attività e di affetti.”

Luigi Scabia, Il Frenocomio di S. Girolamo in Volterra (1910)

Manifesto pubblicitario della ditta Edoardo Lossa, specializzata in impianti sanitari

Latrina

“La latrina Lossa consta essenzialmente di un piano quasi quadrangolare, in ferro, nel cui centro si apre un foro di scarico che corrisponde ad un comune sifone a chiusura idraulica. Il piano, su due lati, ha per confine e parete il muro (si colloca in un angolo rivestito in marmo), nel terzo lato si inalza fino a conveniente altezza una lastra di marmo. Il malato è così obbligato ad entrare nello spazio limitato, e se è poco proprio, fino a non curare dove lascia perdere le feci, ciò non importa per il risultato finale perché il piano quadrangolare, che è a livello del pavimento, è concavo e quando il malato se ne va si scarica automaticamente un getto fortissimo di acqua dal davanti e dai lati che trasporta ogni immondizia che va necessariamente ad attraversare il sifone a chiusura idraulica. Questi cessi sono assolutamente puliti, pratici, inodori, costano poco e non vanno soggetti a guasti. In argomento la tecnica manicomiale ha fatto un vero progresso.”

Luigi Scabia, Il Frenocomio di S. Girolamo in Volterra (1910)

Architetti Monti e Savoldi, Progetto di lampada per illuminazione notturna e ventilazione, Manicomio di Voghera (1874), © Spazi della follia

Lampada a gas

“Accenneremo soltanto che nel manicomio l’illuminazione a gaz è ancora, quand’è possibile la migliore per prontezza di servizio – occorre però disporre gli apparecchi in modo che non siano alla portata da esser manomessi dagli alienati – sia collocandoli ad opportuna altezza sia recingendoli d’una rete metallica. Ogni lampada sia a gaz sia combustibile liquido, munita del tubo di cristallo, è applicata ad una parete del locale da illuminare - la sommità del tubo di vetro si innesta in un tubo metallico il quale ricurvandosi orizzontalmente va ad internarsi nel muro, dove sbocca in un condotto verticale che sale entro il muro stesso fino sotto il tetto meglio fino all'esterno; al dissotto della lampada è praticata nella parete un apertura che sbocca essa pure, più in basso nel condotto verticale; in tal modo si ottengono due effetti utili: 1° l'aria calda prodotta dalla fiamma salendo nel tubo verticale, che funge precisamente l'ufficio d'un camino di richiamo, produce la tirata d'aria dal locale attraverso all'apertura inferiore praticata nella parete e così si effettua la ventilazione; 2° i prodotti nocivi della combustione vengono completamente esportati all’esterno. Togliendo così ogni causa di infezione d’aria, che inevitabilmente invece si verifica col sistema ordinario di illuminazione.”

Cesare Lombroso, Progetto di Manicomio per 350 alienati (1872)