Dal progetto di Cesare Lombroso

Ospedale Psichiatrico San Lazzaro in Reggio Emilia, © Spazi della Follia

Il luogo della cura

Dal XIX secolo la filosofia che guida la creazione dei manicomi non è quella della contenzione bensì quella della custodia e della cura. Mantenere un equilibrio tra queste due funzioni non era sempre facile. La creazione di ambienti che facilitavano la sorveglianza e la sicurezza degli alienati contrastava molto spesso con l’obiettivo della cura: l’adozione di grandi dormitori comuni, ad esempio, rendeva possibile sorvegliare molti pazienti con poco personale; ma allo stesso tempo si concentravano in un unico spazio soggetti affetti dalle stesse manie, con effetti degradanti.
Ma non è tutto. Oltre ad adattarsi alle necessità della custodia e della cura, i manicomi dovevano anche trasmettere un senso di piacevolezza e tranquillità ai propri ospiti. Tale obiettivo veniva raggiunto tramite l’eliminazione di tutti quegli elementi che davano al manicomio l’aspetto di un istituto penitenziario. Lo stesso Lombroso nel suo progetto fornisce una serie di indicazioni “a fine di scemare quanto è possibile l’apparenza reclusoria di quei locali”.
Si tratta dunque di un vero e proprio tentativo di celare la natura “oscura” di questi luoghi: quella della limitazione della libertà. Tale tendenza, caratteristica del secondo Ottocento, appare curiosa e molto interessante, soprattutto per le soluzioni elaborate.

Colonia di Gheel in Belgio

Manicomio villaggio

Tra le soluzioni elaborate per rendere il manicomio un luogo più confortevole vi è sicuramente quella del manicomio villaggio. Tale sistema nasce per suddividere in tante unità la monolitica struttura degli edifici centrali, sostituendo all’anonima dimensione delle camerate l’atmosfera familiare delle piccole comunità.
Questa tipologia viene sperimentata per la prima volta a Gheel, in Belgio. La “colonia dei pazzi” era sorta nei pressi di una meta di pellegrinaggio legato al culto di Santa Dinfna. Nel 1803 la fama secolare del luogo convince il prefetto di Bruxelles a trasferire tutti i folli rinchiusi nell’ospizio cittadino alla colonia miracolosa.
Esquirol, che visita Gheel nel 1821, afferma: “Questi infelici sono in pensione presso gli abitanti; passeggiano liberamente nelle contrade, mangiano coi loro ospiti e dormono in una loro casa. Non si è mai udito che ne siano derivati degli inconvenienti”.
Cesare Lombroso, pur aderendo di fatto alla tradizionale tipologia del manicomio chiuso, nel suo progetto pare voler inserire alcune caratteristiche del sistema a villaggio: gli edifici isolati posti ai quattro angoli del recinto, in prossimità dei giardini, sono infatti definiti “sistema cottage” e presentano “un aspetto quasi a mo’ di casetta svizzera”.

Ville Sbertoli a Pistoia, © Alinari

Manicomio albergo

Tra le interpretazioni più interessanti della tipologia manicomiale vi è sicuramente quella dell’architetto Francesco Azzurri. Nel 1877, in occasione del II Congresso della Società Freniatrica ad Aversa, egli chiede di superare la rigidità delle strutture geometriche e simmetriche che trasmettono un senso di reclusione per proporre invece un tipo di istituzione nel quale “la calma, l’ordine e la vita di famiglia” siano alla base del progetto di cura.
Suo è il progetto per Ville Sbertoli a Pistoia, evidentemente ispirato al sistema a villaggio nella disposizione delle strutture. Gli edifici, pur sparsi nella natura, non assomigliano tuttavia a romantici cottage bensì a lussuosi alberghi.
Lo stesso Azzurri afferma: “Il compartimento pei tranquilli è disegnato col titolo di Albergo della salute, e tutte le esteriorità debbono farlo apparire per albergo. Tutti gli altri compartimenti di malati si distinguono egualmente sotto la denominazione di Alberghi e ne hanno tutta l’apparenza”. Siamo quindi di fronte ad un ulteriore modello, quello del manicomio albergo.